29 Aprile 2025

Ari di Léonor Serraille | Director’s Statement

Quando mi è stato proposto questo progetto legato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Parigi, mi sono data del tempo per scoprire la classe che mi era stata affidata. È stata la prima volta che mi succedeva di scrivere una sceneggiatura dopo aver incontrato il cast. Mi è stato detto anche che: “Sono un gruppo sensibile, vedrai, abbastanza permaloso”.

 

A quel punto, sebbene la mia idea iniziale fosse quella di scrivere una storia sulle difficoltà dei giovani insegnanti, quando ho incontrato gli attori non mi ero ancora fissata su questo tema, dicendo a me stessa che volevo solo conoscerli e che non c’era nulla di deciso. Sono stata colta di sorpresa dai colloqui con loro. Ho posto a ognuno le stesse identiche domande, nello stesso ordine. Abbiamo parlato del passato, del futuro, della loro vita, dei sogni, dei ricordi di momenti cruciali, dell’infanzia, del legame con il presente e del lavoro; abbiamo discusso delle loro speranze, delle loro aspettative, di come si vedevano da qui a dieci anni…

 

Le loro risposte mi hanno fatto sentire in modo più vivido qualcosa a cui non riuscivo a dare un nome, qualcosa di generazionale, una sorta di angoscia, una mancanza di ancoraggio. Come note discordanti, contaminate dalla disillusione e da un bisogno di vivere intensamente.

 

Mi ha fatto pensare alle domande poste da Edgar Morin e Jean Rouch in Chronique d’un été: “Come vivi? Qual’è il tuo lavoro? Sei felice? C’è qualcosa in cui credi? Com’è la tua vita quotidiana?”.

 

Mi rendo conto che all’epoca ero molto simile ad Ari, cioè ero persa, fragile, ma con una grande curiosità verso gli altri. È stato attraverso gli scambi con questi attori che ho inconsciamente trovato la forma del film: un’anima solitaria che incontra altre anime solitarie attraverso la conversazione.

 

Avevo voglia di fare un film in cui sembra non succedere praticamente nulla, ma in cui parlare riporta lentamente una persona alla vita. Impercettibilmente, avviene un cambiamento interiore più grande, una sorta di sbocciatura o epifania per il protagonista, che probabilmente avrei voluto sperimentare anche io in quel momento della mia esistenza.

Quando si fa un film, le intenzioni si evolvono lungo il percorso. Stavo facendo questo film per afferrare qualcosa, come una sorta di caccia al tesoro: non potevo controllare tutto e sarebbe una bugia parlare di un “piano preciso”. A volte infatti, ci vogliono uno o due anni per capire con precisione quello che volevo fare. 

 

La mia intenzione era di fare un film che seguisse da vicino il suo protagonista, che prendesse forma attraverso le vibrazioni dell’attore stesso. Il mio bisogno era di connettermi a certe emozioni perdute, di lavorare su un ritratto di un uomo che di solito non si vede nei film.

 

Oltretutto, Power of Gentleness: Meditations on the Risk of Living di Anne Dufourmantelle e l’interessante dinamica tra padre e figlio in A Burnt Child di Stig Dagermann, mi ha fatto particolarmente riflettere. Dal punto di vista della regia, ero spinta dal mistero di procedere in modo diverso: volevo scrivere velocemente in pochi mesi, lavorando con il cast in anticipo, utilizzando l’improvvisazione. Attraverso l’uso della pellicola 16mm, volevo ottenere una maggiore vivacità durante le riprese, una sorta di risveglio, tornando a un modo meno comodo di fare cinema, con un approccio più viscerale e organico.

 

Con Youna de Peretti e Sandra da Fonseca, rispettivamente la direttrice del casting e la mia produttrice dal 2016, abbiamo lavorato con il gruppo durante un workshop di 15 giorni, facendo interpretare loro quasi tutti i personaggi. Una volta definito il cast, ho finalizzato la scrittura del film. 

 

Le riprese sono state condotte con una troupe leggera e veloce, simile a quella di un documentario ma con un approccio da fiction classica. Un film tra gli altri la cui realizzazione è stata molto significativa dal punto di vista della preparazione è l’opera di Eliza Hittman Rarely Never Sometimes Always, girato nel 2020 per le strade di New York in 16mm.

 

In quel periodo ho rivisto Il fuoco dentro di Louis Malle e sono rimasta affascinata dal semplice loop che il personaggio segue, dal suo vagare pieno di domande, all’atmosfera e alle possibilità di esplorare il presente. L’idea era anche quella di utilizzare come sfondo uno scenario esistente, senza quasi nessuna scenografia. Io e la mia troupe abbiamo cercato di stabilire un’organizzazione flessibile, ponendo gli attori al centro per consentire loro di reinventare e dare corpo ai personaggi. Durante la lavorazione del film, mi sono resa conto che la cosa più importante per me era filmare un attore o un’attrice mentre prendevano confidenza con il loro personaggio, cosa trasferivano in esso e cosa questo risvegliava imprevedibilmente in loro.

 

Un altro obiettivo è stato quello di filmare la città di Lille e la regione circostante, dove ho vissuto per 10 anni. Frequentavo spesso il museo di Belle Arti della città, dove c’è un dipinto di Odilon Redon che trovo particolarmente affascinante, proprio come L’uomo che dorme di Carolus-Duran, di cui ho seriamente pensato di utilizzare il titolo per il film.

 

Per questo film-ritratto, la luce invernale del Nord sembrava essere in sintonia con la sensibilità dell’attore, Andranic Manet, che è letteralmente il pilastro del film. In apparenza, non succede molto. Ma con Ari, ogni piccolo evento apre lo spazio per un leggero spostamento, per uno specchio o una minuscola trasformazione. Poiché entriamo in una bolla, che è la sua, possiamo vedere la sua energia, le sue ferite, la sua forza, tutto ciò che è profondamente intimo e su cui gli strumenti del cinema permettono di far luce, scavando sotto la pelle.