Cinque minuti con… Adele Tulli
Il Premio Casa Rossa per il Miglior Film Italiano è stato assegnato dalla Giuria Giovani ad Adele Tulli per il suo Real. In occasione della sua vittoria, abbiamo intervistato la regista sulla sua visione del cinema indipendente, la sua esperienza come filmmaker e la partecipazione al concorso del Bellaria Film Festival.
Cos’è per te oggi il cinema indipendente? E cosa pensi sia il suo futuro? Non tanto come genere cinematografico, ma come identità e modo di fare cinema.
Per me il cinema indipendente è un cinema che non nasce per compiacere, ma per cercare. È un cinema che nasce dal bisogno, non dalla strategia. È un modo di pensare e praticare il cinema che si sottrae, per quanto possibile, alle logiche dell’industria, e della standardizzazione narrativa e stilistica del racconto dominante. Forse oggi, in un sistema in cui la produzione e la circolazione delle immagini è sempre più assorbita dalla logica del dato, della profilazione, delle piattaforme, il cinema indipendente diventa una forma di hacking culturale, non solo per il suo intento critico, ma anche per la sua natura artigianale.
È ciò che avviene quando si riappropriano strumenti e tecnologie esistenti, svincolandole dalle loro logiche prestabilite, quando si rovesciano convenzioni, e si producono immagini che non funzionano secondo le regole dell’algoritmo. È un processo manuale, sperimentale, instabile, e sovversivo, perché si sottrae ai modelli prevedibili, rifiuta la perfezione, e non chiede il permesso di esistere. Esiste perché resiste. Forse in futuro non sarà nemmeno più cinema, almeno non nel senso tradizionale. Sarà installazione, frammento, deep fake sovversivo, archivio alterato, interfaccia critica, glitch. Una costellazione di pratiche, non lineari, non narrative, non addomesticabili. Nell’epoca delle immagini generate dall’intelligenza artificiale, infinite, levigate, industriali, il gesto artigianale e incarnato del cinema indipendente potrebbe caratterizzarsi sempre più come una forma di resistenza, di dissenso creativo, una ferita aperta nel sistema, che non vuole rimarginarsi.
Come valuti la situazione delle registe nel cinema contemporaneo? Siamo, secondo te, all’interno di un processo di risoluzione delle problematiche di genere? Se sì, dove ci sta portando?
Negli ultimi anni c’è stata sicuramente più attenzione verso le registe e le questioni di genere nel cinema, ed è un segnale positivo. Qualcosa si muove, ma parlare di una vera risoluzione direi che è prematuro. Spesso si tratta più di visibilità che di un cambiamento reale, strutturale. Il rischio è che si scambi per trasformazione sistemica ciò che è ancora, in molti casi, solo una forma di rappresentanza simbolica. Contentini. Se guardiamo al contesto più ampio, vediamo che la società, in molti luoghi, sta andando nella direzione opposta: i diritti delle donne e delle soggettività queer sono di nuovo pesantemente sotto attacco, e la cultura patriarcale continua a essere profondamente radicata. In questo scenario, non si tratta solo di includere più voci nel sistema cinema attuale, ma idealmente anche di ripensare il sistema stesso: i modelli produttivi, i linguaggi, gli immaginari, le relazioni di potere dentro e fuori dallo schermo. Quindi sì, c’è una maggiore apertura, ma c’è ancora molto da fare. Soprattutto se vogliamo evitare che la diversità venga assorbita come strategia di marketing invece che come forza trasformativa.
Una ontologica: si può contrapporre il digitale al reale? Cos’è non-reale per te?
Questa è tosta ma ci provo! Diciamo che, in generale, piuttosto che ragionare in termini binari, mi interessa capire come il digitale costruisca realtà: come orienta la percezione, come plasma il senso delle cose, che ruolo ha oggi nella formazione delle idee, dei desideri, dei valori e delle identità delle persone, ma anche come si posiziona al centro di una serie di conflitti globali, anch’essi molto reali. E’ indubbio che gli ecosistemi digitali oggi producano effetti materiali, concreti, tangibili, di vario tipo: relazioni, affetti, connessioni così come nuove forme di potere, controllo e violenza. Pensiamo all’impatto di fenomeni tutti digitali come cyberbullismo, shitstorm, hate speech, revenge porn: ci sono corpi traumatizzati a vita o che la vita la interrompono del tutto in conseguenza dei traumi subiti. Oppure pensiamo all’impatto ambientale, tutt’altro che astratto o etereo: dalla produzione e smaltimento dei dispositivi, al trasporto, la generazione e conservazione dei dati, le infrastrutture materiali che sostengono l’intero universo digitale generano costi energetici ed ecologici enormi, ormai insostenibili. Le terre rare, fondamentali per l’industria tecnologica, sono al centro di gran parte dei conflitti geopolitici attuali. Le tecnologie digitali stanno ridefinendo radicalmente il nostro rapporto con il lavoro.
Insomma, il digitale non è un altrove: è parte integrante e strutturale della realtà contemporanea. Persino la generazione di immagini completamente artificiali – come ad esempio l’inimmaginabile video di Trump Gaza postato dall’account ufficiale del presidente degli Stati Uniti – possono diventare forme tangibili di violenza speculativa (come elabora bene Della Ratta): immagini sintetiche che diventano progetti politici, “scenari non-reali ma realistici. Possibili, plausibili, non ancora concretizzati … Dove ciò che non è ancora accaduto non è meno reale, poiché già perfettamente immaginato e visualizzato”. Non importa che la visione da incubo della nuova scintillante “Riviera del Medio Oriente” non sia un’immagine catturata dalla realtà fisica: noi l’abbiamo già visualizzata, assorbita, ha già colonizzato il nostro immaginario e ci ha quindi in qualche modo preparato e predisposto all’inevitabile sterminio sistematico di una intera popolazione. Non è reale, ma ha la funzione speculativa di preparare il terreno per renderla possibile. In questo nuovo scenario in cui i confini tra ciò che è considerato reale o falso, digitale o fisico, sono diventati più fluidi che mai, la domanda per me centrale non è più tanto, forse, cosa sia reale o non-reale, ma qual è il senso della rappresentazione, come possiamo ancora utilizzare le immagini per interrogare il presente, disinnescare narrazioni dominanti, aprire spazi critici, costruire immaginari altri — non per riprodurre la realtà così com’è, sia essa fisica o digitale, ma per metterne in discussione le strutture, i linguaggi, le gerarchie.
Tra le ragioni della tua vittoria del Premio Casa Rossa si parla di tenerezza. Saresti d’accordo nel definirla un modo di guardare il mondo oltre che di agire? E ci può dare speranza?
Sì, penso che la tenerezza sia un modo di guardare — ma non nel senso di un gesto innocuo o sentimentale. Piuttosto come un’attitudine percettiva che si sviluppa quando prestiamo attenzione a ciò che è fragile, precario, interdipendente. In un mondo segnato da violenza, devastazione ambientale e dall’erosione dei legami sociali, la tenerezza mi sembra una prospettiva (e una pratica) più interessante delle visioni grandiose, le narrazioni salvifiche o le soluzioni facili. È una attitudine che associo a quello che Donna Haraway chiama “staying with the trouble”: restare con la complessità, invece di fuggirla, dominarla o semplificarla.
