30 Aprile 2025

Cinque minuti con… Léonor Serraille

Abbiamo intervistato Léonor Serraille, che sarà ospite del festival e parteciperà alla serata inaugurale presso la Sala Hera – Cinema Astra. Il suo ultimo film, Ari (Francia/Belgio, 2025, 88’), aprirà il festival e sarà presentato in anteprima nazionale, introdotto dalla stessa regista insieme all’attore protagonista Andranic Manet.

 

La tua carriera è iniziata con un ritratto inedito di una giovane donna: quanto credi che pesino oggi gli stereotipi sociali sulla rappresentazione del femminile nel cinema?

 
Tutto pesa sulle donne quando si tratta di stereotipi. Ne siamo costantemente sommerse. Ma senza voler minimizzare l’impatto del cinema, a pesare sulle donne è soprattutto la vita quotidiana e la sua parte di disuguaglianze salariali e di ingiustizie sociali.

 

Nel cinema possiamo trovare sempre più spesso compagne di lotta e di resistenza, o solo voci, incarnazioni di desideri e speranze. Per quanto riguarda il cinema francese, direi che da qualche anno ho notato un’inversione di tendenza e che i registi e le registe non vogliono ridurre o semplificare le donne, ma ritrarle in tutta la loro complessità e nelle loro molteplici sfaccettature, soprattutto nel cinema indipendente. Credo che, checché se ne dica, le cose si stiano muovendo nella giusta direzione, e ancor più nella misura in cui le donne prendono in mano la rappresentazione del femminile con il loro personale punto di vista. Per certi aspetti, il cinema sta avanzando più rapidamente che la vita concreta e materiale delle donne. Va bene rappresentare modelli sempre più liberi al cinema, ma se torniamo a una vita quotidiana che non è abbastanza libera e giusta, rimane molto astratto.

 

Ari è il ritratto dei venti/trentenni d’oggi: i ragazzi sono in crisi, hanno in parte perduto i propri modelli ma sono incapaci di trovarne di nuovi. Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia?

 

Sono proprio queste le domande che mi sono posta quando ho incontrato i 30 attori della classe di diploma del Conservatorio, quando ho dovuto scegliere un piccolo gruppo su cui scrivere. Il loro rapporto con il futuro, i loro sogni, le loro domande sulla genitorialità, sul lavoro, sulle amicizie e sull’amore.

 

Sono stata attratta dai loro punti di forza e di debolezza, e ho anche deciso di cambiare il soggetto principale (inizialmente pensavo di fare un film corale sui giovani insegnanti di scuola). Quello che ci siamo detti mi ha parlato, anche se ho 10 anni in più. Ciò che mi ha spinto in particolare a scegliere di rappresentare un personaggio come Ari, sensibile, forte e fragile allo stesso tempo, è stato anche il fatto che al momento della stesura credo che nella mia vita ci fosse molta inquietudine, e che avere un alter ego che mi permettesse di andare avanti nonostante la mia inquietudine fosse improvvisamente cruciale. Ma non me ne rendevo necessariamente conto mentre scrivevo. Ma paradossalmente, con questo ritratto un po’ fluttuante di un giovane uomo, mi sono sentita molto “nuda” in questo film, più che negli altri. Il bisogno di cercare ciò che ha senso nella vita quando la mente è un po’ confusa o ingarbugliata, questo è certamente il mio punto di partenza, un bisogno di raggiungere anche l’Altro, un bisogno di dolcezza.

 

Cos’è per te oggi il cinema indipendente e cosa pensi che sarà in futuro? Non solo come genere cinematografico, ma anche come identità e modo di fare cinema.

 

È una domanda difficile. Come possiamo sapere quale sarà il futuro del cinema indipendente, già così diverso in Francia, Italia, Spagna e Stati Uniti? Mi sembra che sia estremamente vigoroso e allo stesso tempo minacciato. Sono abbastanza preoccupata, devo dire, ma allo stesso tempo non posso essere fatalista. Mi ricorda l’arrivo del tablet, quando sentivo la gente molto preoccupata: “I libri scompariranno se compriamo tutti dei piccoli tablet?”

 

Il cinema indipendente sarà quello che faremo. O lo proteggiamo, o lo sosteniamo, o sparirà. Il finanziamento di film basati su star di successo sta contaminando il cinema indipendente d’autore, il mercato si ripercuote su tutto, e questo mi fa disperare. Mi preoccupa così tanto che mi fa rabbrividire e a volte, a torto, mi nascondo dietro le mie posizioni.

Ma il cinema indipendente significa essere liberi con il proprio soggetto e il proprio modo di fare le cose, fare un film dall’inizio alla fine. Spero che le persone diano ancora un certo valore alla loro libertà, anche se ne dubito fortemente quando vedo tutte le cose a cui si viene meno. Il “fare” è più importante del “dire”. Sento tante belle parole e pochi fatti.

29 Aprile 2025

Ari di Léonor Serraille | Director’s Statement

Quando mi è stato proposto questo progetto legato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Parigi, mi sono data del tempo per scoprire la classe che mi era stata affidata. È stata la prima volta che mi succedeva di scrivere una sceneggiatura dopo aver incontrato il cast. Mi è stato detto anche che: “Sono un gruppo sensibile, vedrai, abbastanza permaloso”.

 

A quel punto, sebbene la mia idea iniziale fosse quella di scrivere una storia sulle difficoltà dei giovani insegnanti, quando ho incontrato gli attori non mi ero ancora fissata su questo tema, dicendo a me stessa che volevo solo conoscerli e che non c’era nulla di deciso. Sono stata colta di sorpresa dai colloqui con loro. Ho posto a ognuno le stesse identiche domande, nello stesso ordine. Abbiamo parlato del passato, del futuro, della loro vita, dei sogni, dei ricordi di momenti cruciali, dell’infanzia, del legame con il presente e del lavoro; abbiamo discusso delle loro speranze, delle loro aspettative, di come si vedevano da qui a dieci anni…

 

Le loro risposte mi hanno fatto sentire in modo più vivido qualcosa a cui non riuscivo a dare un nome, qualcosa di generazionale, una sorta di angoscia, una mancanza di ancoraggio. Come note discordanti, contaminate dalla disillusione e da un bisogno di vivere intensamente.

 

Mi ha fatto pensare alle domande poste da Edgar Morin e Jean Rouch in Chronique d’un été: “Come vivi? Qual’è il tuo lavoro? Sei felice? C’è qualcosa in cui credi? Com’è la tua vita quotidiana?”.

 

Mi rendo conto che all’epoca ero molto simile ad Ari, cioè ero persa, fragile, ma con una grande curiosità verso gli altri. È stato attraverso gli scambi con questi attori che ho inconsciamente trovato la forma del film: un’anima solitaria che incontra altre anime solitarie attraverso la conversazione.

 

Avevo voglia di fare un film in cui sembra non succedere praticamente nulla, ma in cui parlare riporta lentamente una persona alla vita. Impercettibilmente, avviene un cambiamento interiore più grande, una sorta di sbocciatura o epifania per il protagonista, che probabilmente avrei voluto sperimentare anche io in quel momento della mia esistenza.

Quando si fa un film, le intenzioni si evolvono lungo il percorso. Stavo facendo questo film per afferrare qualcosa, come una sorta di caccia al tesoro: non potevo controllare tutto e sarebbe una bugia parlare di un “piano preciso”. A volte infatti, ci vogliono uno o due anni per capire con precisione quello che volevo fare. 

 

La mia intenzione era di fare un film che seguisse da vicino il suo protagonista, che prendesse forma attraverso le vibrazioni dell’attore stesso. Il mio bisogno era di connettermi a certe emozioni perdute, di lavorare su un ritratto di un uomo che di solito non si vede nei film.

 

Oltretutto, Power of Gentleness: Meditations on the Risk of Living di Anne Dufourmantelle e l’interessante dinamica tra padre e figlio in A Burnt Child di Stig Dagermann, mi ha fatto particolarmente riflettere. Dal punto di vista della regia, ero spinta dal mistero di procedere in modo diverso: volevo scrivere velocemente in pochi mesi, lavorando con il cast in anticipo, utilizzando l’improvvisazione. Attraverso l’uso della pellicola 16mm, volevo ottenere una maggiore vivacità durante le riprese, una sorta di risveglio, tornando a un modo meno comodo di fare cinema, con un approccio più viscerale e organico.

 

Con Youna de Peretti e Sandra da Fonseca, rispettivamente la direttrice del casting e la mia produttrice dal 2016, abbiamo lavorato con il gruppo durante un workshop di 15 giorni, facendo interpretare loro quasi tutti i personaggi. Una volta definito il cast, ho finalizzato la scrittura del film. 

 

Le riprese sono state condotte con una troupe leggera e veloce, simile a quella di un documentario ma con un approccio da fiction classica. Un film tra gli altri la cui realizzazione è stata molto significativa dal punto di vista della preparazione è l’opera di Eliza Hittman Rarely Never Sometimes Always, girato nel 2020 per le strade di New York in 16mm.

 

In quel periodo ho rivisto Il fuoco dentro di Louis Malle e sono rimasta affascinata dal semplice loop che il personaggio segue, dal suo vagare pieno di domande, all’atmosfera e alle possibilità di esplorare il presente. L’idea era anche quella di utilizzare come sfondo uno scenario esistente, senza quasi nessuna scenografia. Io e la mia troupe abbiamo cercato di stabilire un’organizzazione flessibile, ponendo gli attori al centro per consentire loro di reinventare e dare corpo ai personaggi. Durante la lavorazione del film, mi sono resa conto che la cosa più importante per me era filmare un attore o un’attrice mentre prendevano confidenza con il loro personaggio, cosa trasferivano in esso e cosa questo risvegliava imprevedibilmente in loro.

 

Un altro obiettivo è stato quello di filmare la città di Lille e la regione circostante, dove ho vissuto per 10 anni. Frequentavo spesso il museo di Belle Arti della città, dove c’è un dipinto di Odilon Redon che trovo particolarmente affascinante, proprio come L’uomo che dorme di Carolus-Duran, di cui ho seriamente pensato di utilizzare il titolo per il film.

 

Per questo film-ritratto, la luce invernale del Nord sembrava essere in sintonia con la sensibilità dell’attore, Andranic Manet, che è letteralmente il pilastro del film. In apparenza, non succede molto. Ma con Ari, ogni piccolo evento apre lo spazio per un leggero spostamento, per uno specchio o una minuscola trasformazione. Poiché entriamo in una bolla, che è la sua, possiamo vedere la sua energia, le sue ferite, la sua forza, tutto ciò che è profondamente intimo e su cui gli strumenti del cinema permettono di far luce, scavando sotto la pelle. 

21 Marzo 2025

Cinque minuti con… Perla Sardella

Abbiamo intervistato Perla Sardella, regista indipendente e autrice di Portuali, un documentario sulla lotta sindacale del C.A.L.P. (Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali), un progetto a cui ha dedicato tre anni di lavoro. La sua realizzazione è stata supportata nella fase finale grazie a (IN)EMERGENZA di BFF41.

 

Com’è stata la tua esperienza ad (IN)EMERGENZA a BFF41? Cosa pensi di questo programma?

 

È stata un’esperienza sicuramente impegnativa ma arricchente. Presentare un film ancora in scrittura è molto delicato, si rischia di non essere pronte a ricevere feedback e le persone a cui si racconta il film che si ha in mente potrebbero vederlo in tutto altro modo, perciò poi va fatto un bilancio su quanto si racconta e su quanto viene consigliato. È un lavoro di traduzione, quasi, che trovo difficilissimo ma stimolante.

 

Da dove nasce l’esigenza di realizzare Portuali? Perché questa storia? E come sta andando con l’uscita del film nelle sale?

 

Nasce dall’amore che ho per filmare le persone che parlano, che si organizzano, che provano a dare senso a quello che pensano attraverso l’azione collettiva. Il film al momento sta girando molto in sala (e non solo) grazie alla distribuzione di Opendbb e stiamo notando un grande interesse per la tematica sulle armi e sulla guerra che purtroppo è tornata al centro delle notizie, ma anche per il modo in cui viene affrontata, come cinema diretto, scarno, d’osservazione.

 

Come vedi il cinema indipendente oggi?

 

Sicuramente è faticoso fare film indipendenti in Italia, per me non è mai stato facile trovare tempo e finanziamenti, specialmente se la tematica del film è molto politica. Sono contenta che si creino spazi per dare voce anche a questi progetti.

 

E da giovane regista, cosa ne pensi della situazione di autori e autrici emergenti in Italia?

 

Devo ammettere che la situazione è tutt’altro che semplice. Io per fare i miei progetti insegno a scuola e devo ritagliarmi tempo da un altro lavoro. Possiamo solo continuare sperando che la situazione migliori.

12 Marzo 2025

Cinque minuti con… Marta Anatra

Abbiamo intervistato Marta Anatra, regista indipendente e autrice di Horkos, film vincitore del premio Gabbiano Innovazione Cinematografica e il premio Oxilia10 (ex aequo con Impressio in Urbe #3 — Brescia di G. Spina e G. Mazzone) a BFF42.

 

Cos’è per te oggi il cinema indipendente e cosa pensi che sarà in futuro? Non solo come genere cinematografico, ma anche come identità e modo di fare cinema.

 

Il cinema indipendente non è, e non dovrebbe essere considerato un genere cinematografico. L’indipendenza del mercato cinematografico e dei suoi incarichi industriali e commerciali è uno spazio che permette diverse modalità, forme e ricerche. In una società dove tutto è mercato, il cinema sembra essersi progressivamente ridotto a un ventaglio di formati e generi convalidati dall’industria cinematografica e dal settore culturale ufficiale. Il pubblico è considerato dai distributori come una massa uniforme, mentre per me è frammentato in diverse comunità. Oggi ci sarebbe spazio per la distribuzione delle diverse forme di fare cinema. Sempre più mi rendo conto che non si possono fare film che piacciono a tutti e che ogni film ha il suo pubblico. E dico ogni film e non ogni autore perché questa comunità di spettatori può cambiare da un film all’altro. Questa frammentazione del pubblico, trovo che sia qualcosa di meravigliosamente tribale che restituisce una dimensione umana al concetto di cultura. Questo rientra in una sorta di comunitarismo postmoderno dove gli individui fluttuano da una «tribù» all’altra in funzione dei diversi aspetti della loro identità. Purtroppo, la televisione, le sale cinematografiche e spesso anche i festival non fanno abbastanza per rispondere a questa diversità e non mostrano abbastanza film non conformi agli standard culturali e industriali.

 

Perché scegli di utilizzare i materiali d’archivio e come contribuiscono alla costruzione del tuo linguaggio cinematografico?

 

Benjamin parla di «salto della tigre nel passato» per indicare una modalità rivoluzionaria di riappropriazione della storia. Il salto del predatore felino, leggero e silenzioso, non è quello dello storico che analizza le fonti per cercare di ricostruire una verità storica. Il mio uso delle immagini d’archivio è quello di inserirle nel presente, confonderle e rendere quasi ambigua la loro temporalità. Questo libera l’immagine d’archivio da qualsiasi carica nostalgica o commemorativa e dà al passato tutta la sua potenza vitale.

 

Il settore cinematografico sta affrontando una transizione verso pratiche più sostenibili, dalla produzione alla distribuzione. Quali pensi siano le responsabilità di un regista in questo senso e come hai affrontato la questione della sostenibilità durante la realizzazione di Horkos?

 

Non sono molto informata di quali siano le pratiche sostenibili del cosiddetto « settore » cinematografico perché sento di non farne parte. Il mio modo di fare cinema é molto artigianale e non può identificarsi in un linguaggio industriale. Come dice Anna Tsing é tutta una questione di scala di grandezza. Un sistema virtuoso ed ecologicamente sostenibile non puo restare tale se cresce di scala di grandezza. Il capitalismo funziona sul concetto di crescita permanente ed in sé questo é un concetto anti ecologico. Insomma tutto questo per dire che il solo cinema sostenibile é un cinema in piccola scala, credo che dobbiamo imparare questo concetto su tutti i settori e farcene una ragione: finché il nostro obiettivo sarà quello della crescita, nessun ecologismo sarà efficace.

 

Spesso si dice che il cinema d’autore rischia di diventare sempre più di nicchia. Quali strategie potrebbero renderlo più accessibile senza comprometterne l’integrità artistica?

 

Non sento che la questione possa essere posta in questi termini. Credo che nessun autore rifiuterebbe una grande distribuzione del suo film. Ma è vero che oggi per poter convincere il mercato della diffusione ad investire su un film, gli autori si sentono obbligati a rispondere ad un certo conformismo, cambiando la forma del loro linguaggio. La questione di un cinema popolare oggi non può essere la stessa che é stata negli anni settanta. Già negli anni ottanta Godard si poneva il problema del linguaggio in una società sempre più satura di immagini e di comunicazione. Penso che oggi la questione potrebbe essere invertita chiedendosi se il pubblico sia o meno capace di apprezzare forme diverse di cinema. Io penso di sì, soprattutto se smettiamo di mettere al centro la questione dei grandi numeri di botteghino. Per esempio incoraggiando una filiera di cinema locale, o di mettendo in dialogo le comunità con i film che si proiettano, invitando per esempio gli autori a presentare i loro film in sala, o proponendo programmazioni che possano risvegliare un certo interesse in chi non ha l’abitudine di andare al cinema. Secondo me non dovrebbe essere l’artista ad adattare il suo linguaggio al pubblico, ma piuttosto spetta al distributore creare spazi di incontro tra pubblico e film differenti.

19 Febbraio 2025

Cinque minuti con… Tommaso Santambrogio

Dopo la vittoria del premio Casa Rossa al 42° BFF, come è proseguito il tuo percorso e di Gli oceani sono i veri continenti?

 

Il film ha continuato e sta continuando a viaggiare tanto, sia per i festival di tutto il mondo che a livello distributivo. è da poco uscito in sala negli USA, e in Italia è approdato su MUBI. Dal canto mio, la vittoria del premio Casa Rossa ha contribuito a dare un’iniezione di fiducia fondamentale per la scrittura del prossimo progetto, su cui ora sto lavorando.

 

Quali sono i cinque consigli (o non-consigli) che daresti a un* giovane regista?

 

Non penso di essere già nella posizione di dare consigli. Se proprio dovessi dare cinque indicazioni, prendendole con le pinze, direi:
– portare avanti con determinazione il cinema che più si sente proprio, senza cedere a compromessi; se ci si compromette da giovani poi è difficile tornare indietro.
– uscire dalla propria comfort zone, cercando di aprirsi al mondo.
– sforzarsi di intercettare la contemporaneità, che non significa inseguire le notizie, ma ascoltare e interrogarci su ciò che ci accade attorno.
– fare cinema con persone della propria generazione, creando un gruppo di lavoro con cui crescere umanamente e artisticamente.
– fare cinema è una cosa seria, ma non bisogna prendersi troppo sul serio; è essenziale continuare a giocare, a divertirsi e a stupirsi.

 

Cos’è per te oggi il cinema indipendente e cosa pensi che sarà in futuro? Non solo come genere cinematografico, ma anche come identità e modo di fare cinema.

 

Il cinema indipendente è il motore più autentico dell’evoluzione artistica e linguistica della settima arte. È il luogo in cui si sperimentano nuovi processi creativi e soluzioni estetiche, preservando una freschezza ormai rara in un sistema industriale sempre più asfittico e sterile. Riflette sul contemporaneo, sulla narrativa dominante, e mette in discussione tanto le forme linguistiche del canone quanto quelle della società in cui viviamo. Ma soprattutto, è un cinema che accoglie l’imperfezione e, con essa, l’umanità – un valore oggi più importante che mai.

 

Credo che il cinema indipendente continuerà a essere lo spazio in cui interrogarsi e indagare il mondo e l’essere umano attraverso il linguaggio cinematografico in modo autentico, contribuendo a modellare le identità e la cultura del presente e del futuro.

 

Se dovessi definirne l’identità, direi che sta nella capacità di riconoscersi nella libertà del proprio sguardo e in una comunità che cerca di mantenere un pensiero autonomo e originale, anche a costo di andare controcorrente. Essere indipendenti significa cercare ostinatamente l’orizzonte, anche quando tutto sembra volerlo ostruire, inventando nuove strade e nuove forme.

 

Qual è il tuo punto di vista sullo slow cinema, ha ancora spazio? Può essere una forma di resistenza contro il consumismo dell’industria cinematografica?

 

Penso che, col passare del tempo, lo slow cinema appaia sempre più radicale, ma forse proprio per questo continuerà a esistere e a espandersi. Il cinema che cerca di rincorrere affannosamente la velocità tecnica e linguistica della tecnologia contemporanea mi fa quasi tenerezza: parte già sconfitto. Credo che interrogarsi sul tempo diventerà sempre più cruciale dal punto di vista sociale, e lo slow cinema è il movimento che più di ogni altro esplora e riflette sulla dimensione temporale del cinema.

 

Se sia una vera forma di resistenza al consumismo non lo so. Di certo critica la produzione di film pensati esclusivamente per il mercato e la domanda del momento. Fa ciò che l’arte dovrebbe sempre provare a fare: imporsi sull’industria cinematografica per trovare, attraverso questa imposizione, un dialogo autentico con lo spettatore. Mettiamola così: lo slow cinema è una forma cinematografica che detta le sue regole e lascia allo spettatore la libertà di accettarle o meno. E forse proprio per questo ne rispetta maggiormente l’intelligenza. È ciò che il cinema, soprattutto quello indipendente, deve e dovrà sempre fare.

20 Marzo 2024

Controcampo italiano — Intervista a Daniela Persico

Questo è l’anno della riscoperta della storia del Festival e del suo archivio — archivio sul quale lavoriamo grazie al sostegno del Ministero della Cultura. Navigare nel passato per uno sguardo consapevole sul presente e segnare le rotte del futuro. La rassegna e il libro Controcampo italiano: cinque registi per immaginare un Paese edito da Minimum Fax ne sono testimoni. Daniela Persico, intervistata da Tea Paci, ci racconta il valore di questa direzione concettuale:

 

 

Bellaria Film Festival, un tempo chiamato “Anteprima per il cinema indipendente italiano”, ha una storia importante. Cosa ha significato per te riscoprirla?

 

Dopo le prime edizioni, in cui ci siamo posti più l’obiettivo di riportare un cinema giovane all’interno del festival, che da sempre ha scoperto i nuovi autori italiani, abbiamo iniziato a interrogarci sulla sua storia e il suo valore contestuale. Gli anni ’80 e ’90 sono stati decisivi per il cinema italiano nel far emergere nuove voci e anche nuove pratiche produttive che andassero molto al di fuori di quello che era il “sistema romano”, creando nuovi centri lungo tutta la penisola. Questo è il contesto nel quale anch’io, come giovane spettatrice, sono cresciuta. Ho studiato a Milano dove ho incontrato una realtà come Filmmaker Festival, nata proprio per sostenere il cinema indipendente negli anni ’80 e ’90, incentivando lo sviluppo di nuove società di produzione e di autori che raccontassero scenari inediti del cinema italiano. In quegli anni Bellaria rappresentava un luogo d’incontro speciale per questi autori, che immaginavano un futuro diverso per l’arte cinematografica. Iniziare a riscoprire questa storia è stata un’avventura attraverso il cambiamento dell’immaginario della società italiana, ma anche il modo di concepire un festival cinematografico.

 

 

La storia del Bellaria Film Festival è in parte custodita in un archivio che avete deciso di raccontare. Come? E quali sono i protagonisti di questa storia?

 

Quest’anno abbiamo deciso di lanciare un segnale per la riscoperta del Bellaria Film Festival e del suo archivio, che è composto da tante voci, alcune diventate molto celebri, come Silvio Soldini, altre rimaste per propria volontà “fuori dal coro”, ma che hanno rappresentato qualcosa di importante e unico per il cinema del futuro. Insieme a Minimum Fax, si è pensato a un libro che contenesse le storie di quei cineasti, percorsi raccontati in prima persona dai protagonisti (e raccolti da critici che li hanno amati e seguiti come Mario Blaconà, Alessandro Del Re, Beatrice Fiorentino, Emiliano Morreale, Giona A. Nazzaro, Dario Zonta) e illustrati da Simone Massi. Controcampo italiano: cinque registi per immaginare un Paese raccoglie la storia di capolavori degli anni ’90 che hanno segnato un passaggio del cinema italiano, aprendo ad uno scenario per nuovi modi di guardare e raccontare il nostro presente.

 

Si inizia dal corpus di opere di Paolo Benvenuti, un autore che ha sempre guardato al passato celato del nostro Paese per raccontarlo attraverso il filtro della cultura italiana, cercando un punto di vista inedito seppur insito nelle tracce del passato. Si continua con Antonio Capuano, un autore che con la sua inarrestabile forza propulsiva ha reinventato i generi e ha dato forma alle contraddizioni della contemporaneità. C’è Giuseppe Gaudino che con Giro di lune tra terra e mare ha realizzato il capolavoro italiano degli anni ’90, mettendo in fluida connessione i resti del nostro tempo e del passato, anticipando tanti autori del cinema europeo.  Franco Maresco che attraverso la provocazione di un’immagine sempre spinta al limite di se stessa, si propone come disvelatrice degli angoli più neri del nostro paese. E c’è infine Corso Salani che apre alla scena del cinema del reale contemporaneo in cui la prima persona diventa la chiave interpretativa, l’unica risorsa, per affrontare il presente.

 

Sono loro i padri mancati del cinema italiano, quelli che avremmo voluto potessero essere al centro di una riflessione culturale condivisa, ma che sono sempre stati relegati ai margini. Una generazione cresciuta in momento politico complesso, in cui il cinema è stato messo da parte, rispetto all’immagine televisiva. I loro film sono delle pietre miliari, delle voci vulcaniche, che hanno saputo conservare le contraddizioni di quel tempo e che, soprattutto, riconosciamo come centrali oggi alla luce di quello che sta accadendo nel cinema contemporaneo. 

 

 

Ai “padri mancati” sarà dedicata la Retrospettiva del Festival. Quale valore può avere per il cinema contemporaneo?

 

La retrospettiva che dedichiamo a loro è una raccolta di film importanti, che hanno intercettato la storia del nostro Festival oltre a quella dei registi stessi. Li ho voluti mettere in relazione con degli autori che segnano oggi dei nuovi orizzonti del cinema d’autore europeo — autori che potessero reinterpretarli. È evidente che questi film abbiano lasciato una traccia potente, che ha superato i confini nazionali, sembra essere stata tenuta nascosta e ormai quasi dimenticata, tanto che parliamo di persone che hanno dovuto sfidare la censura ai tempi, che si trovano in situazioni complesse per poter continuare ad esprimersi.

L’idea di questo libro è nata sulla spiaggia, quando il regista Miguel Gomes mi ha dichiarato di essere rimasto molto ispirato, ancora ai tempi in cui non pensava di fare il regista ed era un critico cinematografico, dalla visione di Giro di lune tra terra e mare. Da lì è nata una riflessione su come certi film siano stati centrali per i cinefili della mia generazione e quanto oggi siano al contempo dimenticati. Eppure, in qualche modo, sono lo specchio delle pratiche contemporanee di alcuni autori. E, quindi, mi è piaciuto far rileggere a un autore come Radu Jude il cinema di Paolo Benvenuti, perché sono due autori che riflettono sulla centralità del documento e sulla mediazione dell’immagine cinematografica; così come ho voluto portare a collisione l’universo irriverente di Franco Maresco con la riflessione sullo statuto ontologico della realtà di Sylvain George, o di collegare un autore bambino negli anni Novanta come Alessandro Comodin e farlo riflettere sul mondo mediale creato da Capuano per Vito e gli altri, o il ritorno in Italia di un documentarista come Giovanni Cioni quando Corso Salani sceglieva di allontanarsene per raccontare quell’Europa, così carica di promesse e inquietudini.

 

 

Qual è la tua speranza? Cosa ti auguri per questo progetto di riscoperta storica?

 

Spero che questo libro e la riproposizione dei film dei padri mancati al Bellaria Film Festival possano creare un contesto per incontri generazionali e per una riflessione condivisa rispetto alla recente Storia del nostro Paese e sul cambiamento culturale che abbiamo affrontato.

 

16 Febbraio 2024

Intervista a Loris G. Nese

L’anno scorso, tra i progetti della sezione (in)emergenza, Z.O di Loris G. Nese ha vinto il premio di post-produzione audio (mix) a Cinecittà. Tea Paci lo ha incontrato per aggiornarci sul suo progetto cinematografico:

 

 

Ci racconti della genesi del tuo cortometraggio Z.O. e come si intreccia con una dimensione personale?

 

Il film nasce da un’iniziale voglia di raccontare uno specifico momento della vita, l’avvicinamento alla fine dell’adolescenza, quando tutto sembra ancora pericolosamente possibile e innocuo. Ancora di più se calato in un contesto di marginalità sociale. La Zona Orientale di Salerno è un’area di quartieri popolari che in città è percepita come una cosa molto diversa rispetto al centro, anche se non così lontana fisicamente, una sorta di periferia “morale”. L’accezione è negativa e crea divisioni con l’esterno, ma in parte è anche positiva perché crea un profondo senso di appartenenza all’interno della zona, un problematico orgoglio che è quello con cui sono cresciuto. La storia è collocata alla fine degli anni ’90, anni di faide tra clan in città. I racconti legati a quegli eventi hanno caratterizzato la mia crescita e definito l’identità della zona. Sono partito dai miei ricordi per scrivere il film.

 

Lavori ormai da diverso tempo con l’animazione. Cosa ti attrae di più di questo linguaggio?

 

Il bello dell’animazione sta nella possibilità di superare i confini fisici ed entrare nella testa dei personaggi. In ogni mio film animato mi piace esprimere i momenti di confusione mentale trovando una specifica resa visiva. In quei punti dei film può succedere qualunque cosa. Posso distruggere tutto, proprio fisicamente. Questa possibilità è la cosa che più mi diverte. Cioè la possibilità di sfondare le pareti e riprendere contatto con la materia, scomporre e ricomporre le cose, lavorare con tecniche e materiali diversi, sperimentare per cercare l’effetto più potente per raccontare un determinato passaggio. Ma sempre al servizio della narrazione. È anche vero che mi annoio facilmente e cerco sempre nuovi modi per impedirlo.

 

Dopo la partecipazione al progetto di sviluppo (In)emergenza, alla scorsa edizione del Bellaria Film Festival, quali piste si sono aperte per te?

 

Dal punto di vista creativo, presentare il progetto in uno stadio ancora embrionale ci ha dato la preziosa occasione per sperimentarne l’effetto sul pubblico. Il premio poi, che consisteva nella realizzazione del Mix 5.1 a Cinecittà, ha concretamente contribuito alla realizzazione del film, dandoci l’occasione di potenziare l’atmosfera sonora, che è uno degli aspetti a cui più teniamo.

 

So che i mesi passati sono stati particolarmente prolifici per il tuo lavoro. Quali progetti stai portando avanti?

 

Al momento sono impegnato principalmente su due progetti in fasi diverse. Uno è il mio primo lungometraggio, come sempre a metà tra fiction, documentario, e animazione, che ha dei legami con “Z.O.” e la mia crescita, prodotto da Chiara Marotta per Lapazio Film. Il progetto è stato presentato al mercato di Dok Leipzig e premiato ad Archivio Aperto a Bologna, e sarà pronto intorno alla fine di quest’anno. Contemporaneamente sto scrivendo la sceneggiatura di un lungometraggio di fiction, selezionato a Biennale College della Biennale di Venezia e presentato al Torino Film Lab.

16 Febbraio 2024

Intervista a Ludovica Fales

Tea Paci, del Team Programmazione, ha discusso con la regista Ludovica Fales il continuo successo del suo ultimo docufilm, Lala. Durante la scorsa edizione del Bellaria Film Festival, il film ha ottenuto il Premio MyMovies nella sezione Gabbiano.

 

 

Che genesi ha il progetto e come sei arrivata a questo ricchissimo affresco di storie e prospettive?

 

Il mio incontro con Zaga, una ragazza di diciassette anni, i cui sogni ho visto polverizzarsi in modo sconvolgente di fronte alla impossibilità di ottenere un documento nel paese in cui era nata e cresciuta solo per il fatto che i suoi genitori fossero profughi sans papiers dalla ex Jugoslavia, insieme alla sua successiva temporanea sparizione e ricomparsa, mi hanno fatto riflettere sulla necessità di raccontare il tema della invisibilità attraverso una moltitudine di punti di vista differenti. Nasce, così, il bisogno di raccontare una storia composta di più storie, quella di Zaga, Lala e tutte le altre e gli altri che  condividono la loro esistenza, come forma di riflessione non sulla negazione del visibile, ma sulla invisibilità come “soglia”, che si puo’ attraversare verso una presa di coscienza. Tutti i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato agli workshops che ci hanno portato al progetto finale, hanno preso in carico la propria passata o presente invisibilità e l’hanno cambiata di segno, collettivamente. Ed è una riflessione attiva che speriamo siano capaci di fare anche gli spettatori e le spettatrici di fronte al film.

 

Un documentario, un film di finzione, un laboratorio teatrale durato cinque anni”, così recita il trailer del film. Ci diresti meglio di questa forma ibrida e del perché come regista credi sia importante svelare il gesto cinematografico?

 

Esiste un momento preciso in cui questa “soglia” di cui parlavo si manifesta, chiedendo a chi guarda di implicarsi nella visione, di uscire dalla visione passiva e superare il gesto dell’osservazione per prendere parte, in qualche modo, al film. È la manifestazione di un “confine” che si dissolve: confine tra i generi cinematografici, ma anche confine stabilito per convenzione politica tra gli Stati nazionali, confine invisibile, frontiera, barriera, che separa chi è dentro e chi è fuori, chi ha cittadinanza e chi no, chi ha diritti e chi non ne ha. Nel momento in cui il confine appare ci si accorge della struttura della costruzione. Nel disvelamento del gesto esiste per me, pero’ , anche il suo dissolvimento, un “momento liscio”, che, insieme allo straniamento vuole provocare  prossimità e unire le persone…

 

Lala è stato presentato alla scorsa edizione del festival nella categoria Gabbiano, dove ha vinto il premio MyMovies. Com’è stato presentare il film a Bellaria?

 

Bellaria è un festival molto innovativo perchè sa coniugare ricerca e sperimentazione linguistica, con la creazione di un pubblico attivo di persone giovani, che sono chiamate a prendere parola, a scrivere, a partecipare, a presentare i loro progetti ed evolvere durante il festival e, allo stesso tempo, è frequentato da un pubblico locale affezionato che lo segue con affetto e orgoglio. Inoltre, la partecipazione di MyMovies ha consentito anche a un pubblico meno prossimo di intervenire, votare e prendere parte. Per noi questo grande calore e partecipazione è stato fondamentale per credere nel film, incontrare un pubblico che ha passato con noi giorni a parlare e sentire il potenziale impatto del film nello scardinare stereotipi e barriere legate alla cultura rom e alle questioni di cittadinanza ed esclusione sociale.

 

Il film ha iniziato un bellissimo percorso nelle sale a partire da fine Gennaio. Cosa vuol dire per te portare in giro per l’Italia di oggi un’opera di questo tipo?

 

Ci ha davvero stupito l’ entusiasmo con cui il film è stato accolto e il grande desiderio di partecipazione e dibattito che abbiamo trovato in tutte le città in cui siamo stati finora (Roma, Trieste, Gorizia, Udine, Torino, Bologna, Milano). A breve ci aspettano date a Palermo, Marsala, Napoli e Firenze e speriamo di poter andare anche in tante altre città. L’incontro tra i protagonisti del film e le persone che sono venute a vederlo è stato vero e vedere le sale piene di gente diversa, seduta insieme in sala, ci ha dato la misura di quanto il cinema possa ancora essere un luogo di incontro, di condivisione orizzontale e di messa in comune di esperienze